La parabola triste, con il suo tragico epilogo, di Agostino Di Bartolomei. Un campione speciale, un modello di lealtà di un calcio romantico, la storia di un uomo picaresco tormentato e intrappolato dalla vita e dalla spettacolarizzazione della stessa che si uccise a 39 anni, nel maggio del 1994.
Storie di sport – Tradimento e perdono: vita e morte di Ago Di Bartolomei
Sottosuolo delle idee, antieroe dostoevskijano per eccellenza, Di Bartolomei è musica per lo sport, uomo integro e a suo modo semplice, seppur spigoloso come tutti gli uomini. Difficile trascurare una lettura che non lasci l’amaro in bocca, mettendo in risalto le piccole miserie di chi ha fatto sì che un grande campione come l’ex capitano romanista campione d’Italia e per un soffio campione d’Europa precipitasse in un buco nero dal quale non è più uscito. Delitto e castigo.
Forse è proprio per questi motivi che Luca, il figlio di Agostino, da anni coniuga nel suo impegno politico l’etica civile e la passione per lo sport, e di recente ha commentato sui social una t-shirt con l’effigie di suo padre che il cantautore Francesco De Gregori ha indossato con fierezza durante il tour qualche mese fa: “Su quella maglia non è Ago, ma un ragazzo della periferia di Roma che prova a comportarsi in maniera civile e a fare il suo lavoro con serietà e professionismo. Uno dei tanti romani che non sbraita, che non scoatta. Uno che non hai mai pensato di essere un esempio. Di Ago a Roma ce ne sono tanti: e più la comunicazione punterà modelli di romano prepotenti e volgari, come in queste settimane ci sono stati proposti da radio e tv, più Ago vedremo in giro”. Ecco, l’uomo semplice, l’uomo della porta accanto che può (e deve) essere l’uomo in più, parafrasando il titolo dell’opera prima del premio Oscar Paolo Sorrentino dedicata proprio a Di Bartolomei, non è solo quel centrocampista di classe, con buona interdizione e ottima visione di gioco, con un destro al fulmicotone che ne fa un gran tiratore di punizioni e un cecchino dagli undici metri.
ONORE, GLORIA E DIGNITÀ – Sono le parole che Agostino ama di più, che si porta dietro da quando gioca ragazzino sui campi di Tor Marancia, nella periferia romana. Il cursus honorum lo porta proprio nella squadra del cuore, a imporsi grande tra i grandi. E la sua Roma sale, sale altissimo, quasi fino a toccare il cielo. Quasi, perché proprio quando sta per arrivare alle stelle, piomba giù, tristemente giù. Nel 1984 i giallorossi arrivano in finale di Coppa dei Campioni, per di più all’Olimpico, il loro fortino: la partita termina con una clamorosa sconfitta ai rigori e il Liverpool diventa campione d’Europa. Quel giorno si conclude la sua vita da giocatore della Roma e, come la sua squadra quel giorno, la sua vita crolla nell’oblio dell’anonimato. Ma anche in quella occasione, nessuna esagerazione, nessun rancore, solo gratitudine, nonostante tutto: “Credo di andarmene con dignità e con la consapevolezza di aver indicato un modello. Non tutti l’hanno apprezzato, ma la gente l’ha capito. È il mio scudetto personale, la mia grande vittoria. Lascio da vincitore, non da uomo sconfitto”. Tradimento e perdono. Nel 2007 Antonello Venditti, tifoso romanista e amico di Agostino, gli dedica la canzone che ha questo titolo: “L’ho scritta il 30 maggio, anniversario della morte di DiBa, e del giorno in cui la Roma perse nell’84 la Coppa dei Campioni. Può avere valore anche per me, è una canzone preventiva; io penso che uno che ha successo, abbia diritto a più amore che non una persona normale: a volte, quando finisce la tua importanza, una parola può bastare”.
IL MILAN, IL CESENA, LA SALERNITANA – Va a Milano, sponda rossonera, per tre stagioni. Quando il berlusconismo irrompe sulla scena calcistica, l’ex capitano della Roma supera la trentina e, a Sacchi, DiBa non risulta utile. La sua ultima stagione in serie A è quella del 1987/88, una salvezza con la maglia del Cesena ancora da protagonista. Conclude la carriera in Serie C nel 1990, dopo due stagioni trionfali con la Salernitana. Nell’ultima da professionista contribuisce al raggiungimento della storica promozione dei granata in serie B dopo ventitré anni d’assenza, indossando anche la fascia di capitano al braccio.
DOPO IL RITIRO – Negli anni successivi al ritiro, Ago tenta di diventare allenatore e di restare nel giro che conta, ma il mondo del calcio sembra essersi proprio dimenticato di lui, mettendolo da parte, ancorato su false illusioni e promesse mai mantenute. Esprime tutto il suo sconforto per la piega che aveva preso la sua attività a San Marco di Castellabate, il paese del salernitano dove si era trasferito con la compagna Marisa e i figli dopo la fine della carriera da calciatore. In pratica un centro sportivo, in cui ha investito una buona parte del suo patrimonio, che per decollare ha bisogno di un prestito bancario che non arriva e dell’interesse della politica locale che non c’è mai stato. Impossibile che uno con la sua carriera avesse speso tutto per qualche campo da calcio e una palestra, di certo non andava bene né la sua agenzia di assicurazioni né altri affari in cui si è infilato. E il 30 maggio 1994, dieci anni esatti dopo la tragica notte dell’Olimpico, si consuma una tragedia ben più drammatica, quella che un cronista non vorrebbe mai annunciare: si spara dritto al cuore (da qui il titolo del pamphlet firmato Luca Di Bartolomei, uscito quasi un anno fa per Baldini e Castoldi, che vuole appunto mettere in guardia le persone da una cultura militarista e violenta), suicidandosi. Non c’è nessuna intenzione né di indagare né tanto meno di giudicare il gesto in sé o cosa abbia potuto portare Diba a compierlo. Una cosa però resta, ed è certa: un modello Agostino Di Bartolomei l’ha dato, eccome. Ha mostrato l’identikit del calciatore modello. In ogni occasione. Nella buona e nella cattiva sorte. Con onore, gloria e dignità.
Andrea Fiorentino
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