Sulla Gazzetta dello sport le parole di due grandi protagonisti della ripresa post-lockdown della squadra allenata da Sinisa Mihajlovic: Musa Juwara e Musa Barrow. Il primo è arrivato in Italia su un barcone, che era poco più che un ragazzino.
Bologna, Juwara e Barrow, due “muse” felsinee: “I razzisti sono persone che non conoscono il mondo”
“Vedevamo in Europa una vita diversa – dice Juwara -. Per noi era il luogo dei sogni e delle possibilità. Lo sognavamo guardando i film, la televisione, il calcio. Il viaggio costava tanti soldi. Mia madre era un’insegnante, vendette tutto quello che aveva per consentirmi di raggiungere quel luogo. Io ero sicuro che con il calcio avrei potuto farcela e mandarle dei soldi per lei e i miei fratelli”. Juwara ha attraversato il Senegal, il Mali, il Burkina Faso, il Niger. Ha affrontato un viaggio duro, in cui dormivano in macchina e si arrangiavano per mangiare. “Il momento in cui ho avuto più paura è stato quando siamo arrivati in Libia – continua -. Volevo tornare indietro, ma non si poteva. Ho pianto. Ero terrorizzato, si vedeva la gente con la pistola per strada. Poteva capitare che, se ti rifiutavi di obbedire a un ordine di qualcuno che per esempio voleva costringerti a fare un lavoro, quello ti uccidesse. La polizia poteva sbatterti in galera, se non pagavi. Ogni strada mi sembrava un inferno. Ero terrorizzato. Poi ci siamo imbarcati. Ma io non so nuotare e mi prese il panico. Il mio compagno di viaggio mi rassicurava, diceva che stavamo per arrivare, che mancava poco. Ma lo faceva per consolarmi. Restammo invece in mare per dieci ore. All’inizio tutto era tranquillo ma poi le onde si alzarono e stavano per travolgerci. Se non avessimo incontrato la nave di una ONG tedesca, saremmo tutti morti”. Poi lo sbarco a Messina e l’arrivo in Basilicata, al centro di accoglienza. “Dormivamo in dodici in una casa. Io volevo giocare al calcio. Pensavo sarebbe stato la mia salvezza. Sapevo di essere bravo. Avevo imparato per strada, con i miei coetanei. Ma si capiva che ero capace. A Potenza iniziai a giocare a calcetto, facevo tanti gol”. La famiglia italiana di un allenatore di calcio lo ha accolto e l’ha aiutato a risolvere i problemi burocratici con lo Stato italiano. E ora il calcio.
La storia di Barrow, invece, è diversa. Barrow viene dal Gambia. “Mio padre è morto quando avevo due mesi e io sono rimasto solo con mia madre che si è fatta in quattro per me. Anche lei era insegnante e grazie al fatto che i suoi fratelli erano emigrati in America e le mandavano dei soldi, noi abbiamo potuto vivere una vita dignitosa. Lei voleva che studiassi, ma io avevo la mania del pallone. Mia madre ogni sera mi veniva a recuperare per strada per farmi studiare. Mi trovava sempre nello stesso posto: lo spiazzo dove giocavamo fino al buio con i miei amici. Noi in Gambia siamo un po’ brasiliani. Dateci un pallone e siamo felici”. Fu proprio là che lo scovò un osservatore professionista. A 14 anni il primo provino con l’Atalanta, ma era ancora troppo piccolo e dovette tornare in Gambia fino al compimento della maggiore età. “Noi siamo un piccolo paese, povero – conclude Barrow -. Ma da noi c’è una grande solidarietà, ci dividiamo il pane, siamo gente pacifica e da noi i bambini che vedono un bianco non si spaventano, gli fanno festa. I razzisti sono persone che non conoscono il mondo, che non hanno mai viaggiato. Se vai in Africa ti rendi conto di come vivono le persone. Ma basta anche guardare due bambini che hanno il colore della pelle diversa e che, naturalmente, giocano insieme. Siamo come fratelli e Sinisa è un papà”
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