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Palacio, l’ex Bologna e Inter si dà al basket: “Qui sono uno dei tanti”

“Gioco perché mi diverto, non c’è altro. A basket gioco da sempre: sono nato a Bahia Blanca, la città di Manu Ginobili, quindi sono cresciuto a calcio e pallacanestro. Poi ho scelto il primo perché ero più bravo coi piedi. Nella squadra sono uno dei tanti, non sono l’ex calciatore dell’Inter. Qui anche gli avversari mi trattano come uno qualsiasi”, ha detto a SportWeek. L’argentino ammette di non essere molto propenso alle interviste: “Quando hanno iniziato a cercarmi i giornalisti, per sei mesi ho smesso di giocare. Non mi piace”.

Palacio, l’ex Bologna e Inter si dà al basket: “Qui sono uno dei tanti”

“Non parlo. Quante interviste ho dato quando ero calciatore? Una, due in tutto? Non mi piace farle. Se domani sul tuo giornale esce che adesso gioco a basket, poi mi chiamano tutti. Non voglio. Non mi piace”, ripete. Però è già venuta fuori la notizia che ti sei dato alla pallacanestro… “E infatti mi hanno cercato i tuoi colleghi per intervistarmi e io per 6 mesi ho smesso di giocare”. Ma vorremmo solo che raccontassi in prima persona la tua nuova vita di sportivo… È una bella storia… “Che riguarda solo me. Gioco perché mi diverto, non c’è altro da dire. Nella squadra sono uno come tanti, in partita non ci sono differenze tra me e i miei compagni, anche gli avversari mi trattano come uno qualsiasi. Era quello che volevo. Che cercavo. Qui sono Palacio e basta, non l’ex calciatore dell’Inter. Qui, ciò che ho fatto prima non conta. Perché il basket? Perché ci gioco da sempre. Sono nato a Bahìa Blanca, in Argentina, la stessa città di Manu Ginobili, quindi sono cresciuto a calcio e pallacanestro. Poi ho scelto il primo perché ero più forte col pallone tra i piedi”. Concede un sorriso, saluta gentile e va via.

Dell’ex attaccante di Genoa, Inter, Bologna e Brescia si sapeva (sa) già tutto: tanto veloce, bravo nel dribbling, abile e furbo sottoporta, quanto rigido e a disagio davanti a taccuini e microfoni. Sarebbe stato bello che Rodrigo Palacio raccontasse la sua nuova vita, ma accontentiamoci. Accontentiamoci di quel che abbiamo visto, sufficiente a ribadire che Palacio è la conferma che, se uno è campione, lo rimane per sempre e qualsiasi cosa faccia. Qualsiasi sia, in questo caso, lo sport che sceglie. Perché, a contare, non sono tanto i risultati o la categoria, ma l’atteggiamento: l’impegno, la serietà, la concentrazione, l’intensità che ci mette, anche se non si esibisce più a San Siro ma nella palestra, ecosostenibile e inaugurata appena due anni fa, dell’Istituto Perasso, in via Adriano a Milano. Anche se a guardarlo non ci sono più ottantamila spettatori, ma diciotto, in pratica parenti e amici dei giocatori in campo. Anche se la divisa che indossa non è più quella dell’Inter (o del Genoa, del Bologna e del Brescia, le sue altre squadre calcistiche italiane), ma del Garegnano, peraltro capolista al termine del girone d’andata nella Divisione Regionale 1 Lombardia, ex serie D, di basket. E se, di fronte, non ha più Milan o Juventus, gli avversari più nobili di una carriera spesa tirando calci al pallone, ma i Tigers, che in quella Divisione Regionale eccetera navigano nella parte medio-bassa della classifica.

È, insomma, una pura e semplice questione di passione e adrenalina. Di emozioni, sentimenti e sensazioni, quella specie di elettricità che ti attraversa il corpo e ti fa sentire atleta per sempre. O, almeno, finché le gambe rispondono ai comandi del cervello. Anche ora che gli anni sono 41, il fisico pare ancora più esile di quel che era e ti chiedi, guardando Palacio correre e saltare in mezzo a una banda di ventenni, come faccia a reggere agli urti. Sarebbe stato bello, dunque, che a parlare di tutto questo fosse stato lui in persona, se solo però l’uso della parola non fosse per lui un dono da centellinare solo con le persone care. Del resto, se l’atleta è rimasto quello di sempre, treccina d’ordinanza compresa, perché a cambiare avrebbe dovuto essere la persona? A parlare lascia che siano i fatti. In questo caso, gli 11 punti e i 3 assist distribuiti in una partita finita 83-66 per la sua squadra, che pure presenta a referto solo nove giocatori, invece dei canonici dodici, “ma a noi mancava il capitano Andrea Buongiorno”, dice un dirigente dei Tigers. “Lavora per la Federazione e lo hanno mandato quattro giorni a Edimburgo. E il resto della nostra squadra è composto quasi tutto da nati nel 2005”.

Finisce dunque con Palacio che per una volta indossa gli abiti del comprimario, lui che fino a questa partita era il miglior marcatore della squadra con 117 punti segnati, superato proprio in questa partita dall’assai più giovane Gianluca Fiorani, che nel canestro dei Tigers ne infila 26 grazie soprattutto a una impressionante serie di triple. Palacio rimane però un comprimario di lusso: col numero 15 sulla schiena inizia la sua partita con due assist, uno dei quali no-look, con la palla servita senza guardare al compagno piazzato sotto canestro. I primi punti arrivano dopo 6 minuti dall’inizio, una tripla sbagliata e un fischio arbitrale contro in attacco, ma è un canestro coi fiocchi: in fade-away, buttandosi all’indietro per evitare la stoppata dell’avversario. Il ragazzo mostra di saperci fare, insomma. Gioca a testa alta, ha buone mani, alterna penetrazioni a tiri da fuori, “vede” i compagni. Stai a vedere che, dieci o quindici centimetri e qualche chilo in più, il calcio avrebbe perso un bravo attaccante, ma il basket avrebbe guadagnato una guardia di tutto rispetto. Ciò che stupisce, almeno in questa partita, è appunto il modo di stare in campo di Palacio: da questo punto di vista, nulla è cambiato rispetto ai tempi della carriera da professionista nel calcio. Si vede subito che per lui il basket è una cosa seria. Per catturare un rimbalzo, salta mezzo metro da terra in mezzo a tre parecchio più alti di lui, sbaglia due canestri di fila da sotto nella stessa azione e strappa ancora la palla all’avversario per conquistarsi due “liberi” al terzo tentativo. Si tuffa sul parquet per recuperare una palla che sta finendo fuori, a rischio sbucciatura.

Ma, a colpire davvero, è l’atteggiamento verso i compagni: mentre loro gridano l’uno verso l’altro per chiamare il passaggio o il movimento difensivo, Palacio non alza mai la voce. Suggerisce con un gesto della mano, si avvicina all’orecchio per un consiglio. Un paio di volte parlotta con gli arbitri, mano sulla spalla come se fosse un vecchio amico. Durante un time out resta in piedi mentre i più giovani siedono a riposare. In una parola: leader. Viene richiamato in panchina a 2’ dalla fine del primo quarto e gioca quasi tutta la partita. Che sia un punto di riferimento è evidente, ma è altrettanto evidente che, quando dice che è “alla pari degli altri”, dice la verità. Nel suo ruolo di guardia, non è il regista della squadra e dunque non tutti i palloni passano per le sue mani, e non tutti gli schemi d’attacco lo coinvolgono, così come la maggior parte dei tiri non passa per le sue mani, nonostante alla vigilia della partita coi Tigers fosse appunto il miglior marcatore del Garegnano. Al termine, anche i compagni gli stendono intorno una sorta di cordone sanitario. Bocche cucite, tranne quella di Francesco Grisanti, assistant coach. “Rodrigo si allena da anni con noi. Le due figlie fanno ginnastica artistica con la nostra polisportiva. Palacio veniva in palestra quando ancora giocava nell’Inter, e poi anche dopo. Due anni fa, smesso col calcio, ci ha chiesto di giocare. La nostra reazione? La stessa che abbiamo quando prendiamo qualsiasi nuovo giocatore: curiosità, interesse, soddisfazione”. Ma possibile che i compagni non guardino con occhio diverso – forse più timoroso, certamente più ammirato – uno che col pallone tra i piedi ha giocato, solo nei vari campionati, 474 partite segnando 151 gol, vincendo tutto ai tempi del Boca Juniors, la sua prima squadra?

“Guardi, viene trattato come un componente della squadra, né più né meno. In partita prende anche lui il suo cazziatone. La differenza tra l’avere e il non avere uno come lui in squadra sta solo in un aspetto, sia pure molto importante: nella positività che mette e trasmette quando le cose non vanno. Avendone viste e passate tante su un campo da gioco, sa infondere ottimismo anche nei momenti difficili. Per il resto, qui di calcio si parla poco. Sì, ogni tanto qualcuno gli chiede un parere sull’Inter, ma non più di questo. Se è uno che fa gruppo? Ha organizzato una grigliata, ma, a parte il carattere riservato, gli è nato da poco un maschio: sono i figli ad assorbirgli la maggior parte del tempo. Quel che rimane lo dedica a noi, sul campo. E noi ce lo godiamo”. Se poi non parla, cavoli nostri.

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